e Dolomiti sono un osservatorio particolarmente significativo per misurare la salute del nostro pianeta, soprattutto dal punto di vista del cambiamento climatico. Le conseguenze del riscaldamento globale sono già ben visibili nei territori di montagna: negli ultimi anni sono stati sempre più frequenti i fenomeni estremi che hanno causato danni irreversibili sia in termini ambientali che umani, anche nelle terre alte.
Ma questi non sono gli unici indicatori. Ne abbiamo parlato col Dott. Emiliano Oddone, geologo divulgatore e cofondatore di Dolomiti Project.
Sentiamo spesso dire che le zone che più verranno colpite dal cambiamento climatico non saranno “le nostre”. Ma la verità è che stiamo assistendo a sempre maggiori disastri ambientali, anche nelle nostre Dolomiti.
È vero che le zone del mondo più colpite dall’innalzamento delle temperature e da altri effetti del cambiamento climatico sono quelle dell’Africa, del sud-est asiatico, dell’India, del Medio Oriente o della penisola arabica, già designate da studi non proprio recenti come aree particolarmente fragili e potenzialmente generative di enormi migrazioni umane a causa degli effetti del caldo estremo e dell’accentuata desertificazione.
Ma anche se calori così estremi non riguarderanno le zone di montagna, le nostre Dolomiti sono e saranno comunque molto esposte agli effetti dei cambiamenti climatici, di cui rappresentano vere e proprie “sentinelle”, ovvero territori in cui possiamo accorgerci prima che in altri luoghi del cambiamento in atto.
Perché le Dolomiti sono un osservatorio privilegiato per misurare la febbre del pianeta?
Le emergenze geologiche presenti fra queste bellissime montagne rendono questi ambienti ricchi di scenari: la particolare storia geologica e la conseguente grande geodiversità delle Dolomiti (per cui per altro sono state inserite nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO) sta alla base di una grande variabilità di rocce. Questa variabilità delle rocce definisce anche una grande fragilità delle Dolomiti. Ecco perché le nostre montagne sono un laboratorio a cielo aperto di grandissimo valore in cui anche un occhio non allenato può accorgersi dei più evidenti cambiamenti in atto.
Penso, in particolare, ai ghiacciai, in quanto ambienti molto delicati e reattivi. Già negli ultimi due secoli i ghiacciai alpini hanno perso quasi due terzi della loro superficie, in risposta ad un aumento della temperatura di circa 2°C e si ipotizza la loro completa scomparsa entro la fine del secolo.
Ma non solo i ghiacciai: il rischio idrogeologico aumenta e lo abbiamo visto e si registrano anomalie nel ricarico delle falde acquifere sotterranee, con potenziali effetti disarmanti sul piano economico, sociale e alimentare. Le diramazioni dell’emergenza climatica sono molto articolate.
A cosa stiamo assistendo sulle nostre montagne e come sono cambiate negli ultimi anni?
Ci sono stati diversi crolli con massicce scariche di detriti, alcune sono passate tristemente alla cronaca. Ma questi sono solo alcuni degli episodi, quelli più imponenti. In realtà però mensilmente se ne verificano molti altri di entità più piccola, parte di un processo di sbriciolamento cronico. Ci sono motivazioni diverse alla base dei crolli sulle montagne. In primis va ricordato che il peso non dorme.
Assistiamo poi al discioglimento del Permafrost, ovvero il ghiaccio presente negli interstizi della roccia o del terreno, che sopra una certa quota dovrebbe essere permanente. Quando questo ghiaccio “permanente” si scioglie (e non dovrebbe), ovvero quando lo 0 termico si alza di quota (quest’estate abbiamo registrato giornate in cui lo 0 termico superava i 4500 metri sul livello del mare), le fratture si allargano, le pareti si indeboliscono e si verifica un aumento dei crolli. Nel caso di roccia fratturata e incline alla fragilità come la Dolomia il permafrost fungerebbe da “cemento” che tiene assieme tutto, la sua repentina scomparsa è dunque preoccupante.
Questo produce un accumulo di materiale sciolto alla base delle pareti che viene preso in carico dai ghiaioni. Questo significa un aumento della probabilità che grosse scariche di materiali arrivino fino nei paesi, nel fondovalle, soprattutto in corrispondenza di fenomeni piovosi intensi e di breve durata, come quelli che sempre più spesso vediamo verificarsi.
Quindi si capisce che il rischio, a cascata, non riguarda solo le alte quote…
Il problema dei crolli che si innescano in alta quota, si riversa sempre di più nei paesi a valle in cui ci sono gallerie, ponti, strade, zone industriali. Persone.
Il disequilibrio è evidente poi nei bacini idrografici (i corsi d’acqua) con fenomeni di erosione, trasporto e deposizione che spesso causano disastri in ampie aree che includono torrenti in alta quota e fiumi fino alla pianura.
C’è chi obietta però che i crolli in montagna ci sono sempre stati. Come risponderebbe?
Direi loro che è vero: i crolli non sono un fenomeno che riguarda solo gli ultimi anni. Le Dolomiti franano da sempre e questo è uno dei fatti che rendono queste montagne uniche, belle e particolari dal punto di vista morfologico (varietà di forme). Ma è altrettanto vero che la loro frequenza sta aumentando perché è in aumento la superficie vulnerabile delle montagne a causa delle nuove condizioni climatiche. Questo pone un problema di sicurezza: ad esempio, la frequentazione della montagna ad alta quota e gli insediamenti saranno sempre più sottoposti a rischi.
Quindi è d’accordo con chi propone una limitazione delle escursioni in alta montagna?
La limitazione delle escursioni in montagna è una questione di buon senso. È evidente che non tutti possono andare ovunque e a qualunque costo. Le persone sono giustamente attratte dalle Dolomiti, ma una cosa va detta: i rischi in aree sensibili sono proporzionalmente legati alla frequentazione e alla presenza di insediamenti. A questo si aggiunge una sempre più scarsa consapevolezza del territorio particolare in cui molte persone si trovano come turisti. Mi riferisco ad esempio alla gestione delle delicate riserve d’acqua in alta quota con enormi sprechi collegati al turismo di massa (invernale ed estivo), alla mancanza di strategie di gestione dei flussi turistici, che porta a sovraffollare alcuni luoghi famosi con picchi non sostenibili in specifici periodi dell’anno.
Come è possibile intervenire in questo scenario di cambiamento?
Come sottolineato nella recente enciclica “Laudato sii” scritta da Papa Francesco, dobbiamo essere saldamente consapevoli che tutto è connesso. Noi viviamo in un mondo sempre più settorializzato, ma riferendoci alla natura questo è un ragionamento che non è possibile fare. Dobbiamo accettare la complessità e non optare solo per la superficialità. Stiamo rischiando grosso di fronte alle sfide epocali e ho l’impressione che ci manchino gli anticorpi culturali utili a dare le corrette interpretazioni.
Quello che è importante fare è sensibilizzare all’osservazione e alla considerazione del limite.
Quindi osservare per ridurre i rischi?
È già vetusto parlare solo di riduzione del rischio, parlerei piuttosto di adattamento al cambiamento e di accettazione del rischio, il rischio zero in montagna non esiste: e questo presuppone uno sforzo a livello di educazione.
Serve imparare ad ascoltare i messaggi che i corpi geologici suggeriscono, per rispettare i limiti dinamici che la montagna impone. I sentieri tracciati e segnalati possono risultare di colpo impraticabili e questo va accettato in una dimensione dialogica con l’ambiente naturale. Inoltre si dovrebbe anche accettare che non possiamo costruire ovunque, alcuni vincoli sono inderogabili, su un corpo di frana non possiamo pensare di agire come se non ci fosse, sull’alveo di un torrente o su un ghiaione non possiamo insediarci solo perché a memoria d’uomo non si ricordano eventi distruttivi. Andrebbero, infine, continuamente aggiornate le conoscenze relative ai fenomeni in corso e su questo c’è ancora molto da fare sia a livello di raccolta dati che di divulgazione degli stessi.
C’è qualcosa che desidera aggiungere in conclusione?
Vorrei dire che il cambiamento climatico è un problema sociale che si riflette a tutti i livelli. La risposta credo sia nell’educazione al rischio, nell’accettazione dei limiti e in una programmazione a lungo termine che preveda la destinazione di adeguate risorse.
Abbiamo poche decine di anni per lasciare una situazione gestionale, amministrativa, politica ed economica sufficientemente solida perché si possa rispondere a queste sfide.
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